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CASSAZIONE PENALE / CIVILE

CONTINUA LA PUBBLICAZIONE DI MASSIME CASSAZIONE.

CONTINUA LA PUBBLICAZIONE DI MASSIME CASSAZIONE. - studio legale Potenti

 Breve elezione delle più recenti o particolari pronunce penali

e civili della Corte di Cassazione, o dei Tribunali, che abbiamo

ritenuto significativo segnalare per le concrete applicazioni

quotidiane e che non esauriscono ne intendono essere esaustive

della interezza dei singoli loro contenuti ai quali si rimanda.

 

 

 

RECENTI MASSIME E PRONUNCE IN MATERIA PENALE E CIVILE 

 

 

 Sentenza civile 15000/2021 Corte di Cassazione: Casa del coniuge e di un terzo non consente diritto di abitazione coniuge superstite.

 

 

La Corte di Cassazione risolve e precisa la portata dell'art 540 CC nella parte in cui al comma 2 ove prevede che al coniuge superstite, anche quando concorra con altri all'eredità, "sono riservati di diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni". L'espressione di proprietà del defunto o comuni ha destato difformi interpretazioni sulle situazioni di comunioni ammissibili; qualsiasi caso o solo quando essa interocrra tra coniuge defunto e quello superstite? La Cassazione decide quindi in questo secondo senso confermando quella giurisprudenza che negava la possibilità do acquisire un diritto di abitazione sulla casa di abitazione al coniuge superstite nel caso in cui la casa di abitazione fosse in comunione tra il defunto ed un terzo.   

 

 

Sezioni Unite penali n° 14722/2020 su ingente quantità sostanze stupefacenti

 

secondo la recentissima di cui all'oggetto e depositata il 12 maggio u.s., l’aggravante dell’ingente quantitativo di sostanza stupefacente "non leggera" scatta con il possesso di oltre 2 chili di principio attivo moltiplicato per 2mila, espresso in milligrammi (per esempio, 750 milligrammi per la cocaina, 250 milligrammi per l’eroina). Pur confermando i precedenti orientamenti e di cui alla Sentenza della Suprema Corte a S.U., si interviene ora a precisarne meglio le conclusioni per quanto riguarda le droghe leggere e in particolare l’individuazione puntuale dei fattori della moltiplicazione il cui prodotto determina il confine dell’ingente quantità, discrimine per l’applicazione dell’aggravante. Tutto nasce infatti dall'imprecisione della sentenza del 2012 che, individuava in 2mila il moltiplicatore del dato numerico (costituito dal valore soglia di principio attivo, cioè la quantità massima detenibile) da utilizzare come primo fattore dell’operazione per determinare il livello ponderale minimo dell’ingente quantità, che indicava per le droghe leggere un valore soglia espresso in milligrammi pari a mille. Confermato dunque un orientamento maggioritario, in base al quale, per essere coerente con il ragionamento del 2012, il quantitativo minimo di principio attivo di sostanza stupefacente del tipo "leggero" al di sotto del quale non scatta l’aggravante deve essere necessariamente essere pari al doppio di quanto venne indicato e dunque a 4mila volte il quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno, pari a due chili.

 

 

 

Ieri le Sezioni unite hanno sposato l’orientamento maggioritario, in base al quale, per essere coerente con il ragionamento del 2012, che viene peraltro confermato nei presupposti, il quantitativo minimo di principio attivo di sostanza stupefacente del tipo «leggero» al di sotto del quale non scatta l’aggravante deve essere necessariamente pari al doppio di quanto venne indicato e dunque a 4mila volte il quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno, pari a due chili.

 

Reato di tortura: ultimissima Cassazione sul caso dei "biulli di Manduria"

 

 

Il caso della violenza grave e reiterata fa scattare il reato di tortura. La Cassazione, con la sentenza 47079/2019 respinge il ricorso dei legali dei ragazzi di Manduria sottoposti a custodia cautelare per il reato di tortura nei confronti di un pensionato morto, secondo il capo di imputazione, per le conseguenze delle vessazioni e delle violenze subite dal branco. Il reato fu introdotto dalla legge 110/2017 con l’articolo 613-bis del Codice penale. La Corte si schiera con la scelta del legislatore di non identificare il reato solo con la tortura di “Stato”, prevedendo una fattispecie comune. Una conclusione coerente con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, per la quale il divieto di tortura riguarda sia i soggetti pubblici sia i privati. Circa gli elementi costitutivi del reato, l’articolo 613-bis del Codice penale prevede un reato doloso, vincolato dalle modalità della condotta, dall’evento naturalistico, e dalla condizione del soggetto passivo. Nel giudizio pesano, dunque, le violenze, le minacce gravi, la crudeltà, le acute sofferenze fisiche o psichiche e la privazione della libertà personale come la minorata difesa. La Cassazione precisa, inoltre, che secondo la norma, le azioni integrano il reato se le condotte sono plurime o se c’è un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Tuttavia esiste una clausola di chiusura che dà rilevanza anche ad un solo atto se lede l’incolumità fisica e la libertà individuale e morale del soggetto. Sul problema della gravità, la Cassazione interpreta l’aggettivo “gravi”, nel senso che la condotta deve essere connotata da «violenze, minacce gravi e crudeltà», pur non essendo chiara la stessa formulazione originariamente utilizzata dal legislatore. Si affida cioè alla comune esperienza secondo la quale difficilmente le acute sofferenze e i verificabili traumi sono ricollegabili a violenze non gravi. Quanto alla pluralità delle condotte, in alternativa al trattamento inumano e degradante, i giudici escludono che singoli atti di violenza integrino una pluralità di condotte. Per il reato occorre che le violenze e le minacce siano realizzate a più riprese o commesse con più condotte messe in atto in un arco temporale abbastanza lungo. In questo quadro rientrano i fatti di Manduria.

 

 

 

Grave imprudenza affidare la propria auto al figlio se il suo problema è noto

 

La Quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza 33231/2019 interviene sul concetto di appartenenza a persona estranea al reato in riferimento alla guida in stato di grave ebbrezza alcolica. Quando c’è l’ebbrezza grave (tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi/litro), l’articolo 186, comma 2, lettera c) del Codice della strada prevede anche la confisca del mezzo. Unica eccezione, quando il veicolo appartiene a persona estranea al reato. Il concetto di estraneità al reato è sempre stato interpretato in modo molto largo, può essere elusa con prestiti e intestazioni di comodo. Ma, non basta il solo fatto che l’intestatario non sia chi ha commesso il reato. Per essere considerato estraneo all’infrazione, un proprietario non solo non deve contribuirvi attivamente, per esempio affidando il veicolo a una persona palesemente ebbra: occorre pure che eviti atteggiamenti negligenti che abbiano favorito l’uso indebito del mezzo (sentenza 2024/2007). Per esempio, non deve essere a conoscenza nemmeno di potenziali e probabili ebbrezze. La sentenza 33231/2019, riguarda un uomo andato a sbattere contro un’auto in sosta mentre guidava con tasso alcolemico di 2,82 grammi/litro l’auto intestata alla madre. La difesa ha affermato che tutti i componenti del nucleo familiare potevano tranquillamente servirsi della vettura ma, una deposizione nel corso del dibattimento aveva acclarato che l’imputato sarebbe stato un alcolista. Per questo sia il Tribunale sia la Corte d’appello avevano disposto la confisca della vettura. La misura è sora confermata dalla Cassazione, che ricorda la testimonianza del fratello per dimostrare come venga così accertato il fatto che la madre fosse certamente a conoscenza dell’etilismo del figlio rendendo palese la negligenza ad affidare la propria auto al figlio alcolizzato. Sarebbe finita diversamente nel caso in cui il figlio avesse rifiutato di sottoporsi all’alcoltest: la stessa Quarta sezione, nella sentenza 4961/2018, ha chiarito che il concetto di estraneità al reato non vale nel caso del rifiuto.

 

 

 

Cassazione Civile sul decorso dei termini ex art. 1669 Cc per la denuncia dei vizi di costruzione

  

Con l’ordinanza della Corte di Cassazione n° 3674/2019 si individuano gli elementi conoscitivi necessari ai fini della scoperta dei vizi e dal cui rilevamento decorrono i termini di decadenza annuale e quello decennale di prescrizione previsti dall’aticolo 1669 del Codice Civile. Il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall’articolo 1669 del Codice civile a pena di decadenza dall’azione di responsabilità contro l’appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente consegua una sicura conoscenza dei difetti e delle loro cause, e non dalla data del dibattito assembleare. L’articolo 1669 del Codice civile stabilisce che i vizi di costruzione o per difetto di immobili o cose destinate a lunga durata manifestati entro i 10 anni dal compimento devono essere denunciati dal committente entro un anno dalla scoperta e il diritto al risarcimento si prescrive entro un anno dalla denuncia. Con la recente ordinanza la suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello con la quale, quest’ultima, aveva rigettato la domanda del condominio e dei proprietari delle unità immobiliari volta a richiedere il risarcimento dei danni alle parti comuni e alle proprietà esclusive per i gravi difetti derivanti dall’esecuzione dei lavori di costruzione dell’edificio perché ritenuto, il diritto, prescritto. La Corte territoriale aveva stabilito che il termine di prescrizione annuale era cominciato a decorrere dalla data di una lettera con cui l’amministratore aveva denunziato i gravi difetti di cui avevano discusso i condomini in una precedente assemblea risalente al 2007 ed assumendo, solo allora, la consapevolezza della gravità dei danni. Per la stessa Corte d’appello, quindi, l’azione era iniziata quasi sette anni dopo la scoperta dei vizi la quale non poteva ritenersi avvenuta con la perizia tecnica risalente invece al 2013 e considerata un mero espediente per superare l’eccezione di prescrizione. Di contrario avviso la Corte di cassazione, che ha premesso che per far sorgere la responsabilità dell’appaltatore nei confronti del committente è necessario che quest’ultimo abbia una sicura conoscenza dei difetti e delle loro cause. Questo termine di un anno per effettuare la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall’articolo 1669 del Codice civile, può quindi decorrere solo dal giorno in cui il committente consegua tale sicura conoscenza dei vizi  Tale termine può essere postergato all’esito degli accertamenti tecnici che si rendano necessari per comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto collegamento causale. Per i supremi giudici, pertanto, la corte di merito aveva errato perché aveva ritenuto la perizia tecnica un espediente per aggirare la prescrizione valorizzando, invece, oltre misura il dibattito assembleare fino a considerarlo come momento della scoperta dei difetti senza considerare che manifestazioni di scarsa rilevanza, dibattiti e semplici sospetti non costituiscono un apprezzabile grado di conoscenza della gravità dei difetti nell’esecuzione dell’opera che è, invece, necessario per far sorgere la responsabilità in capo all’appaltatore.

 

 Cassazione penale sulla responsabilità del blogger rispetto a contenuti diffamatori postati da terzi 

 

Con la sentenza della Cassazione 12546/19 depositata ieri, si conferma la responsabilità del blogger per i commenti diffamatori postati da utenti della rete. Se infatti a fronte di una segnalazione questi non provveda alla rimozione è possibile sostenere la natura concorsuale della condotta. Si fissano quindi i presupposti di imputabilità dei gestori di siti e/o diari on line definiti “blog” seguendo la linea della giurisprudenza italiana ed europea maturata sul punto negli ultimi anni.  La V sezione penale della Corte suprema ha respinto il ricorso del gestore di un blog siciliano condannato per diffamazione aggravata dal mezzo di pubblicità previsto e punito dal comma 3 dell’articolo 595 del Codice penale. La Corte ha innanzitutto escluso che la responsabilità del blogger per il fatto altrui sia assimilabile a quella del direttore di testate giornalistiche poiché risulterebbe mancante, sostanzialmente, il requisito della professionalità dell’attività svolta (Sezioni Unite 31022/15), ma ha anche escluso per gli stessi motivi l’ipotesi di una culpa in vigilando (articolo 57 del codice penale). Il difficile inquadramento della responsabilità del blogger, che non è direttore ma non ha nemmeno una posizione di garanzia in senso tecnico-giuridico, determina, per questa ultima circostanza, di non poter applicargli neppure la responsabilità commissiva per omissione (articolo 40 capoverso del codice penale), non avendo il blogger alcun dovere giuridico di impedire l’evento lesivo. Poichè la diffamazione è un reato istantaneo che si consuma cioè nel momento della divulgazione della notizia lesiva dell’altrui reputazione per la sentenza in oggetto parrebbe possibile la sola contestazione al blogger inerte nella rimozione dei commenti insultanti, una riappropriazione della condotta diffamatoria altrui, a titolo pertanto concorsuale. In sostanza, scrive la Quinta, siamo di fronte a una pluralità di reati integrati dalla ripetuta trasmissione del dato denigratorio. A monte di questa decisione, il relatore ripercorre l’inquadramento della figura dell’Internet service provider/fornitore dei servizi di rete non responsabile dei contenuti forniti fino all’avvenuta consapevolezza dell’illecito che si sta consumando attraverso il servizio digitale.

 

 

Cassazione Civile: danni prodotti a terzi dal bene del committente

 

La Corte di Cassazione R.g. 23442/2018 con una recentissima afferma che in caso di danni a terzi nel corso di lavori dati in appalto che sono stati causati dalla cosa su cui viene fatto l’intervento ne risponde il committente. Il caso affrontato dalla Cassazione un Comune aveva dato in appalto dei lavori di realizzazione di una bretella stradale, provocando un allagamento in un immobile ed a beni ivi contenuti di proprietà di terzi. Il Tribunale di prime cure ha ritenuto responsabile dei danni l’impresa appaltatrice ed in appello è arrivata la conferma del rigetto della domanda nei confronti del committente. I terzi danneggiati sono ricorsi in Cassazione ed hanno insistito sulla responsabilità anche del committente. La Cassazione sposa questa lettura ritenendo di non poter aderire all’interpretazione della Corte d’Appello che ha ritenuto di non poter riconoscere una responsabilità del committente in base all’articolo 2051 del Codice civile. La corte d’Appello ha infatti sostenuto che l’aver affidato il cantiere all’ impresa appaltatrice escludeva il rapporto di custodia sulla cosa che ha procurato il danno e nemmeno poteva essere considerata una responsabilità oggettiva ai sensi dell’articolo 2050 del Codice civile perché l’attività pericolosa era svolta dalla società appaltatrice. Tuttavia, se i danni sono stati causati direttamente dalla cosa oggetto dell’appalto, ne risponde il proprietario/committente in virtù del rapporto di custodia di cui all’articolo 2051 del Codice civile, salva la prova a suo carico del caso fortuito. Sostiene la Corte di Cassazione che l’autonomia dell’appaltatore riguarda l’attività da porre in essere per l’esecuzione dell’appalto, non la disponibilità e la custodia del bene oggetto dei lavori. Non si può cioè consentire che il custode si liberi della sua posizione di “garante” della cosa, affidandola a un appaltatore per l’esecuzione dei lavori. Così facendo, si verrebbe a configurare un’ulteriore ipotesi di esonero della responsabilità oggettiva sulla custodia, eludendo la legge che invece ne prevede una soltanto (il caso fortuito). In materia condominiale, la Cassazione già in passato ha ritenuto responsabile il condominio committente quando il fatto lesivo è stato commesso dall’appaltatore in esecuzione di un ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro rappresentante del committente stesso, tanto che l’appaltatore aveva perso l’autonomia che normalmente gli compete. È stata poi riconosciuta una responsabilità del condominio committente per avere affidato il lavoro a un’impresa che palesemente difettava delle necessarie capacità tecniche. Le dinamiche del rapporto tra l’assemblea dei condòmini e l’amministratore fanno sì che, a seconda dei casi, la paternità della decisione possa attribuirsi ora alla prima ora al secondo ora ad entrambi. Si tratta, insomma, di accertare caso per caso l’ambito di autonomia di azione ed i poteri decisionali concretamente attribuiti all’amministratore (Cassazione penale, sentenza 42347/2013). Con la sentenza 23442/2018 il condominio proprietario, in qualità di custode della cosa oggetto dell’appalto, è ritenuto direttamente responsabile dei danni cagionati a terzi o al condomino se i danni sono causati direttamente dalla cosa (come per esempio una perdita d’acqua dall’impianto comune mentre un’impresa ci sta lavorando), salvo che provi il caso fortuito, ovvero dimostri che l’attività dell’appaltatore sia riconducibile al fatto del terzo non prevedibile e non evitabile.

 

 

 

 

Rappresentante della società non colpevole per l'illecito del suo commercialista. La Cassazione su un caso di indebite compensazioni esclude il dolo dal comportamento del contribuente (sentenza n. 26236 del 8/6/2018)

 

 

Con la recente sentenza n. 26236 del 8/6/2018, la Corte di Cassazione ha affrontato un ricorso presentato da un amministratore e legale rappresentante di una società,  condannato per il reato di cui all’art. 10-quater DLgs n. 74/2000, quindi per non aver versato le somme dovute a titolo di imposta utilizzando, nei modelli F24, compensazioni per crediti inesistenti o non spettanti riguardanti gli anni 2009 (€ 221.717) e 2010 (346.551). Seguendo il percorso giurisprudenziale delle Sezioni Unite (Corte di Cassazione, sentenza n. 38343 del 24/04/2014), i giudici hanno osservato che “il dolo eventuale ricorre quando l'agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre invece la colpa cosciente quando la volontà dell'agente non è diretta verso l'evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l'evento illecito, si astiene dall'agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo”. Nel caso esaminato, in capo all’imprenditore era stata individuata una culpa in eligendo e/o in vigilando in ordine all’operato del proprio commercialista e per tale ragione la Corte di appello di Bari aveva affermato che l’imputato doveva rispondere del reato di indebite compensazioni a titolo di dolo eventuale. Ciò in quanto, come ricostruito nella sentenza, il rappresentante legale sapeva già da tempo che il professionista che seguiva la società aveva una cattiva e disordinata gestione della contabilità, arrivando a non registrare le fatture. Secondo la Suprema Corte, invece, in capo al commercialista pare configurabile un atteggiamento meramente colposo e, come evidenziato in sentenza, non si comprende come l’atteggiamento colposo del professionista possa prefigurare, in capo al cliente, un atteggiamento doloso. Inoltre, prosegue la sentenza, anche se l’imprenditore era venuto a conoscenza del fatto che il commercialista non registrava le fatture, la Corte non comprende come dall’essere venuto a conoscenza di tali circostanze, il rappresentante legale potesse anche rappresentarsi l’indebita compensazione del credito fiscale superiore alla soglia di € 50.000. Per tali ragioni la Cassazione ha disposto l’annullamento della sentenza in ordine al dolo in capo all’imprenditore.

 

 

 

 

 

 

Responsabilità medica Cass. 33405/2018, fatto 2007 oggetto di linee guida

 

Con una recentissima, la Suprema Corte afferma come il giudice non possa escludere l’imperizia e l’imprudenza del medico se questo ultimo abbia insistito in una manovra, nonostante sia noto il rischio di tentarla più volte. Con la sentenza 33405/2018 infatti si accoglie il ricorso del Pm e delle parti civili avverso l’assoluzione di un’anestesista, accusata di aver provocato la morte di bimbo di 17 mesi dopo aver tentato per sette volte di “incannulare” le vene del collo del paziente, pur in assenza di un rischio immediato di vita e nell’ambito di un intervento programmato.

La Corte preliminarmente affronta il problema della norma da applicare al fatto, accaduto nel 2007, quando non erano in vigore né il decreto Balduzzi né la legge Gelli Bianco. I giudici escludono la possibilità di applicare la norma in vigore allora, perché meno favorevole in quanto priva di distinzioni sul grado di colpa. Chiariscono poi l’impossibilità di applicare l’articolo 560-sexies del Codice penale dettato dalla legge c.d. “Gelli Bianco” per la parte che riguarda le linee guida. La norma è, infatti, chiara nel subordinare l’operatività all’emanazione delle linee guida in base a un articolato iter di elaborazione (articolo 5 della legge 24/2017) che a tutt’oggi manca. L’applicazione dell’articolo 590-sexies dovrebbe dunque essere limitata alla parte in cui richiama le buone pratiche assistenziali. Per quanto riguarda la legge Balduzzi, la Cassazione riconosce come il contenuto affermi la responsabilità penale solo in caso di rispetto “dell’arte medica”.

Censura, la Corte, la motivazione della Corte territoriale che ritiene lacunosa nel non aver considerato come l’atto medico fosse, all’epoca dei fatti, oggetto di linee guida e cosa queste prescrivessero nel caso di un paziente del peso di poco più di sei chili, ed nel caso di assenza di linee guida se esistessero delle buone pratiche clinico assistenziali. Per l’effetto questo ragionamento porta la Suprema Corte ad affermare come il medico non potesse ignorare i rischi noti di una manovra medica che, anche a detta dei periti dell’accusa, era inopportuno tentare per più di due volte. Anche un’eventuale assenza di imperizia lascerebbe comunque in piedi la tesi dell’imprudenza.

 

 

 

Sentenza Cassazione n° 18101/2018: sulla sospensione dei termini di prescrizione in caso di sciopero VPO in adesione all'astensione proclamata dalle associazioni di categoria dei magistrati onorari. 

 

Con recentissima della Corte di Cassazione si definisce la questione della possibile applicazione dell’interruzione della prescrizione nel caso di adesione del vice procuratore onorario, che svolge le funzioni di pubblico ministero, allo sciopero di categoria. La sentenza 18101/2018 V sez. penale, accoglie infatti il ricorso contro la decisione della Corte d’appello, la quale aveva negato di riconoscere l’intervenuta prescrizione di un reato di falso in atto pubblico. Il metodo di calcolo utilizzato per verificare la durata del periodo di sospensione teneva infatti conto del rinvio disposto nel dibattimento di primo grado per l’adesione del vice procuratore onorario. L’astensione dalle udienze era stata indetta dalle associazioni rappresentative dei magistrati onorari.  La Corte ricorda inoltre come l’articolo 159 del Codice penale distingua tra la sospensione per impedimento, dell’imputato o del difensore, dal diverso caso di quella posta in esame. Nel primo caso il rinvio non può superare i due mesi e la sospensione deve essere compresa entro lo stesso tempo, a decorrere dal momento in cui è cessato l’impedimento. Nel secondo caso, per il differimento dell’udienza non vale il limite dei due mesi e la sospensione comprende tutto il periodo dello slittamento causato dall’istanza dell’imputato o del difensore. La giurisprudenza ritiene da tempo come l’astensione del difensore sia da collocare nella seconda “categoria”: lo sciopero è un motivo legittimo per chiedere di non trattare un udienza ma non è un impedimento a comparire. La Cassazione precisa che il magistrato onorario appartiene all’ordine giudiziario (Rd 12/1941 modificato dal Dlgs). Per questo lo sciopero delle toghe onorarie non può essere equiparato, come effetti sul conto della prescrizione, a quello degli avvocati, in quanto il difensore è un soggetto processuale con diritti e doveri diversi. Una diversa conclusione porterebbe a estendere un istituto che è certamente sfavorevole all’imputato e dunque non è consentita. Nel discernere la questione la Corte cita pure una sentenza di senso opposto, caso in cui si era affermato che l’adesione dall’astensione del vice procuratore onorario ferma il decorso della prescrizione. Tuttavia, l’interpretazione del Csm al quesito posto sulla sostituibilità dei vice procuratori onorari in caso di sciopero, va nel senso di ritenere sussistente l’obbligo del procuratore della repubblica di adottare le disposizioni necessarie a garantire la partecipazione dell’ufficio al dibattimento penale quando per il vice procuratore onorario, non sia in concreto possibile esercitare le sue funzioni. Un’affermazione, aveva precisato il Csm, che non contrasta con il doveroso rispetto del diritto di sciopero. Questo, fra l’altro, significa, afferma la Cassazione, che l’astensione dalle udienze da parte del vice procuratore onorario non ha mai l’effetto di paralizzare le celebrazione del processo, in quanto il procuratore della repubblica è tenuto a porvi rimedio attraverso la sostituzione del soggetto che eserciti le funzioni del Pubblico ministero.

 

 

 

Sent. 1580/2018 condotte riparatorie in Cassazione 

 

Un interessante pronuncia della Corte di Cassazione ha riguardato l'applicazione della nuova modalità di estinzione del reato per codotta riparatoria. In una delle prime pronunce sul nuovo articolo 162 ter del Codice penale introdotto dalla legge n. 103 del 2017, la Corte di cassazione, sentenza n. 1580 della Terza sezione penale, ne nega l’accesso per il caso  di un condannato per il reato di atti sessuali con una minorenne, trattandosi di reato escluso dal perimetro di applicazione della nuova norma, che invece interessa i casi di procedibilità a querela soggetta a remissione.

 

Ma il pronunciamento appare di interesse poichè la Corte non ha escluso la possibilità di chiedere ed ottenere in Cassazione il riconoscimento della nuova causa di non punibilità. Afferma infatti la sentenza che la norma prevede la necessità di ascolto delle parti e della persona offesa. Tale circostanza richiederebbe alla Cassazione compiti estranei alla fisionomia del giudice di legittimità ma, dall'altra, questa conclusione determinerebbe l’espressa esclusione al giudizio in Cassazione della possibilità per l’imputato, nella prima udienza successiva all’entrata in vigore della legge 103/17 di chiedere la fissazione di un termine non superiore a 60 giorni per provvedere ai rimedi delle conseguenze del reato, e tutto ciò per la Corte sembrerebbe muovere proprio dal presupposto dell’applicabilità del nuovo procedimento anche dinanzi alla stessa Corte di Cassazione.

 

 

Cassazione Sent. 53203/2017 no al ricorso personale in sede di legittimità per misure personali e reali

 

L’impossibilità di fare ricorso personalmente in sede di legittimità, ipotesi introdotta recentemente dalla Legge di riforma "Orlando" varrà anche per le misure personali e reali. In questo senso si è espressa La Cassazione con la sentenza 53203 intervenendo a risolvere un punto controverso della legge 103/2017 e, in particolare, quello relativo al modificato articolo 311 del Codice di procedura penale. Si ricordano le opinioni divergenti della stessa Corte ulla portata del divieto di adire la sede di legittimità in prima persona, cosa che ha fatto insorgere dubbi che le Sezioni unite sono state chiamate a chiarire (ordinanza 51068/2017). Ma la V sezione ritiene di poter decidere senza attendere il responso. Abbandonando l’orientamento assunto nell’ordinanza di rinvio favorevole "alla persistente ammissibilità del ricorso personale in materia di misure cautelari personali". La sentenza 53203 condivide infatti la tesi divergente (sentenza 42062/2017) che esclude la legittimazione personale dell’imputato o dell’indagato anche nei casi delle misure cautelari. Si afferma quindi l'inammissibilità di un ricorso personale proposto contro la misura cautelare degli arresti domiciliari effettuato dopo l'entrata in vigore della L. 103/2007, considerando la data di presentazione del ricorso. La riforma incide quindi sugli artt. 311 Cpp relativo alle misure cautelari personali ed anche sull’articolo 325 relativo alle misure cautelari reali.

Eliminando il "fai da te" privo di copertura da parte di legali abilitati alle corti supreme, la Cassazione afferma che i nuovi articoli 571 e 613 contrappongono al principio generale della legittimazione personale all’impugnazione, la regola generale, sia pur settoriale, della necessità della difesa tecnica. Il legislatore non è intervenuto direttamente nel testo degli articoli in questione non ritenendolo riteneva necessario a fronte di una disciplina generale. La strada prescelta non è in contrasto né con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo né con la Costituzione perché il diritto di difesa non è violato ma anzi rafforzato dalla previsione della difesa tecnica.

Si ricorda che la Cassazione, ha escluso anche l’autodifesa nel processo penale anche per gli avvocati, in assenza di una previsione di legge che la legittimi.

 

 

 

Reato di occultamento di scritture contabili.

 

la Corte di Cassazione con pronuncia n° 35173/2017 ritiene sussitente il reato di occultamento delle scritture contabili obbligatorie commesso da parte del commercialista che emette e consegna fatture attive a terzi, ma non le conserva e annota sui registri. La vicenda tra orgine dal ricorso dell'imputato avverso la sentenza d'Appello che confermava la decisione del Tribunale, in cui si paragonava l'omessa esibilizione dei documenti mai detenuti, all'eliminazione fisica delgi stessi. L'art. 10 del Dlgs 74/2000 prevede che salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei mesi chiunque, al fine di evdere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l'evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volumendi affari. La Corte confermando la sentenza ha rilevato che in tema di reati tributati, l'impossibilità di ricostruire il reddito od il volume di affaro a caua della distruzione o dall'occultamento di documenti contabili, non va intesa in senso assoluto. Sussiste, infatti, anche quando è necessario procedere all'acquisizione presso terzi della documentazione mancante. Tale delitto che tutela il bene giurdico della trasparenza fiscale è integrato in tutti i casi in cui la distruzione o l'occultamento della documentazione contabile dell'impresa non consenta o renda difficoltosa la ricostruzione delle operazioni. Va escluso il reato solo quando il risultato economico può essere accertato in base ad altra documentazione conservata dall'imprenditore e senza necessità di reperire ulteriori elementi di prova. Nel caso de quo alcuna documentazione fu reperita presso l'imputato mentre, ve ne era traccia presso terzi con la conseguenza che il reato è integrato. Erano state cioè emesse delle fatture che però non venivano conservate ed annotte con la conseguenza che la contabilità obbligatoria era stata istituita ma non nella disponibilità del professionista. La sola condotta di non stampare la documentazione costituisce occultamento della stessa agli accertatori, con la particolare considerazione circa la sussitenza del dolo per la natura stessa dell'attività professionale svolta dall'imputato: il commercialista.   

 

 

Sezioni Unite - informazione provvisoria - Niente Tenuità del fatto davanti al Giudice di Pace

Definendo sul punto, le Sezioni Unite chiariscono che il nuovo strumento deflattivo dell'art. 131 bis Cp non si applica davanti al Giudice di Pace in funzione penale. Questo va a confermare la prevalente, sin'ora, giurisprudenza della Corte. Come già espresso in alcune di queste pronunce, avanti al Giudice di Pace trova applicazione il diverso strumento dell'art 34 del decr. legislativo n° 274/2000, che si colloca invece nell'ambito della finalità conciliativa caratteristica del tipo di giurisdizione. I due istituti sono diversi per il ruolo attribuito alla persona offesa; nell'improcedibilità del Giudice di Pace trova spazio una facoltà di inibizione coerente anche in questo caso con la natura deflattiva, che da risalto alla posizione dell'offeso. Nella tenuità del fatto, al contrario, non vi sono vincoli di procedura legati al dissenso delle parti. In attesa delle motivazioni è probabile la circostanza per cui la Corte abbia ritenuto che la previsione speciale non fosse eliminata per l'espressa previsione in materia che ne farebbe sopravvivere l'istituto all'applicazione diretta del Codice penale e di cui all'rt. 16 Cp.

 

Cassazione penale Sez. Unite "accesso a sistema informatico protetto da parte del pubblico ufficiale" informazione provvisoria udienza 18 aprile u.s.

Le Sezioni Unite considerano abusivo qualsiasi accesso dovuto a ragioni diverse da quelle per le quali è stata concessa l'autorizzazione. Sintentizzata in queste parole la recente informazione resa al termine dell'udienza dello scorso 18 aprile. Nel 2012 la Corte aveva fissato il principio per cui commetteva il reato di accesso abusivo a sistema informatico colui che, pur abilitato, accede o si trattiene nel sistema in violazione delle condizioni e dei limiti posti dal titolare del sistema "rimanendo irrilevanti ai fini della sussistenza del reato gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l'ingresso nel sistema". Più recentemente modificate, tali impostazioni sono state oggetto di rinvio alle Sezioni Unite dovendosi chiarire il controverso profilo dettato dall'incertezza "se ciò che integra la illiceità dell'accesso da parte di chi è formalmente autorizzato, non sia solo la violazione di disposizioni regolamentari ed organizzative, ma anche lo sviamento del potere pur in assenza di dette violazioni". Questo osserva l'ordinanza di rinvio, dato che, in coerenza con la condotta del reato, l'intrusione non necessita della realizzazione di condotte ulteriori, potendo invece concretizzarsi in una semplice lettura dei dati contenuti nel sistema. Da risolvere è l'esistenza di una ambiguità di fondo nell'individuazione pratica e nell'applicazione della conclusione per cui, per la configurazione del reato non hanno rilievo gli scopi e gli obiettivi che hanno motivato l'accesso. L'uso delle informazioni acquisite è cosa diversa dalla finalità che spinge a muoversi l'autore della condotta. "Questa ultima può rivelarsi certamente rivelatrice del superamento dei limiti dell'autorizzazione all'accesso al sistema, manifestando un vero e proprio eccesso di potere o sviamento di potere e, quindi, costituire elemento rilevante ai fini dell'integrazione della fattiscpecie come nel casi in esame".    

 

 

Cassazione penale, informazione provvisoria 08/2017 Sezioni Unite: aggravante della destrezza e distrazione della vittima

 

Viene eslcusa l'aggravante della destrezza al furto commessa a danno della vittima quando l'autore del reato approfitti di un momentoo di ditrazione. Con informazione provvisoria le Sezioni Unite penali rendono nota la decisione presa in data 27 febbraio sulla base di una ordinanza con cui la Corte stessa ha coinvolto le Sezioni Unite per dirimere la questione insorta sul seguente caso. Il reo sia era impossessato di un computer portatile posto sul bancone interno ad un bar, approfittando di un momento di ditrazione. Una videocamera posta all'interno del locale aveva permesso di individuare l'autore. La Corte d'Appello confermava il primo grado di giudizio, così ritenendo che l'aver approfittato del momento di distrazione consentisse di ritenere il maggior spessore criminale dell'autore. Le linee della Corte erano, sul punto, quelle di poter configurare la destrezza anche quando il ladro colga l'occasione propizia non da lui creata. l'Agente approfitta di una situazione favorevole o di una frazione di tempo in cui la parte offesa ha momentaneamente sospeso la sorveglianza sul bene in quanto impegnata nello stesso luogo o quello immediatamente prossimo a curare attività di vita o lavoro. Per esempio con una pronuncia del 2015 n° 20954 la Corte riteneva sussistere l'aggravante in presenza di furto di bicicletta nel momento di distrazione del proprietario per una telefonata. Così anche nel caso (Sent. 46977/2015) in cui il proprietario avesse riposto, nel tempo della pesca, ed occultandolo sulla riva, un bene da cui veniva sottratto denaro. Altre decisioni fanno riferimento all'esigenza, affichè scatti l'aggravante, che il ladro debba fare qualcosa di più che attendere il solo momento propizio: l'agente dovrebbe porre in essere una attività che per astuzia e rapidità sia tale da superare l'attenzione e la vigilanza dell'uomo medio (caso di non riconoscimento di destrezza per il furto dell'auto allorchè il proprietario sia sceso ad aprire il cancello). Le S.U. prendono posizione per negare la sussitenza dell'aggravante per il solo approfittare di un momento favorevole per eludere la sorveglianza ma dovrebbe essere lui stesso a creare una occasione con astuzia ed abilità (si porti ad esempio il caso dei numerosi furti presso i parcheggi dei supermercati, ove la vittima è spesso distratta con l'astuzia di aver precedentemente subito la sgonfiatura di una gomma).     

 

Cassazione penale n° 13917/2017 su ingresso nella altrui proprietà

 

commette il reato di violazione di domicilio ex art. 614 C.p. colui che si introduce clandestinamente nel cortile del vicino per avere ragione di alcune tende per le quali, infruttuosamente, aveva chiesto la rimozione attraverso il ricorso ad un provvedimento d'urgenza del Tribunale. La Corte d'Appello aveva inoltre, ed parziale riforma della sentenza del locale Tribunale, aveva confermato la condanna per violazione di domicilio ed inoltre, violenza sulle cose, poichè via era stata mutazione dello stato di fatto avvenuto durante la illecita permanenza nell'altrui proprietà. La Corte precisa, rigettando il ricorso dell'imputato avverso la sentenza d'Appello, che il fatto non può qualificarsi come semplice esercizio arbitrario delle proprie ragioni posto che il ricorrente aveva atteso che la condomina si fosse assentata da casa, in modo da potersi introdurre clandestinamente nel suo domicilio, "così realizzando un'ulteriore condotta rispetto al mero esercizio arbitrario del proprio diritto consistito nel distacco delle tende dal suo balcone".    

 

Sezioni Unite 23 marzo 2017 su concetto di privata dimora

 

Pronuncia delle Sezioni unite sul concetto di privata dimora determinata nel configurare il reato di furto in abitazione. Rendendo una informazione provvisoria resa al termine dell'udienza le Sezioni Unite hanno risolto il problema di far rientrare nell'area della dimora privata anche i luoghi dove si esercita un'attività commerciale o imprenditoriale. Tali ultimi non possono rientrare nell'area di dimora privata salvo che il fatto non sia avvenuto all'interno di un'area riservata alla sfera privata della persona offesa. Ai fini di accertare la dimora privata relativamente all'art 624-bis C.p. devono considerarsi, infatti, solo quei luoghi che possono anche venir destinati a sede dell'attività lavorativa o professionale nei quali si svolgono occasionalmente atti della vita provata, e che non siano aperti al pubblico ne accessibili ai terzi senza il consenso del titolare. Il caso all'esame della Corte prendeva le mosse da un furto avvenuto per parte di una persona che in orario di chiusura di un ristorante si era introdotto nei locali sottraendo denaro ed un oggetto del proprietario. Veniva contestata dalla difesa la configurabilità della privata dimora non sussistendo la destinazione di spazi dedicati allo svolgimento di atti di vita privata. La ordinanza di rimessione alle SU aveva sottolineato come non si fosse mai giunti ad una uniformità di interpretazioni, sul concetto di "privata dimora", in grado di unificare la casistica che si era estesa, specie per i reati contro il patrimonio, in maniera considerevole. Alcune pronunce ponevano attenzione sulla destinazione del luogo a manifestazioni di vita privata richiedendo una continuità temporale tra il luogo e le persone, altre hanno valorizzato il profilo di difesa della privacy per cui è destinato a privata dimora il luogo ove esiste il diritto ad escludere altre persone. Altre pronunce hanno valutato l'elemento dell'accessibilità di un numero indiscriminato di persone. Le Sezioni Unite in attesa di leggere le motivazioni, non sembrano eslcudere i luoghi di lavoro da quelli di privata dimora ma, per far si che la loro coincidenza sia possibile è necessario che vi si svolgano atti di vita privata e che non siano aperti al pubblico e neppure a ingressi di terzi senza autorizzazione. 

    

 

 

Etilometro - Cassazione 6636/2017 - utilizzabilità misurazione "volume insufficiente"

 

La Corte di Cassazione interviene sulla validità della rilevazione del tasso alcoolemico quanto l'apparecchio segnala volume di aria insufficiente confermando la validità della misurazione. Tale linea intransigente prende le mosse per indirizzo della IV sezione penale sulla scia di una precedente giurisprudenza che aveva riconosciuto il valore probatorio delle misurazioni con volume insufficiente (Cass. 19161/2016). Sulla base di tre diversi indirizzi quello scelto dalla Corte in ultimo ritiene il risultato valido rimandando al giudice le considerazioni motivazionali per cui ritiene di dare valore al controllo. Vi erano infatti un primo pronunciamento per cui esisterebbe un insanabile contraddizione tra "volume insufficiente" e attendibilità della misurazione. Un secondo per cui si presume che se il guidatore non dimostra problemi di salute tali da impedire di poter soffiare correttamente, il volume insufficiente indica la volontà di rendere impossibile la misurazione e dunque si ricadrebbe nel reato di rifiuto a sottoporsi ad alcooltest. La base della scelta operata dalla Corte nel primo senso citato fonda le sue ragioni sulle direttive del DM 196/1990 per cui in base al combinato di due norme ivi contenute (art. 2.5 e 3.5.1.) la misurazione è corretta ogni volta che sul deisplay dell'apparecchio compare il valore rilevato. La scritta "misurazione insufficiente" sarebbe dunque interpretabile come messaggio di servizio e non come "inequivocabile messaggio di errore". Resta poi il fatto che dovendo ritenere non utilizzabile il valore misurato, si dovrebbe configurare il reato di rifiuto al del test, con l'evidenza che ci troveremmo di fronte ad un comportamento volontario.    

 

Sezioni Unite del 15 dicembre 2015 n° 53153

 

Non c'è divieto di reformatio in peius se la sentenza di secondo grado accoglie la richiesta di provvisionale che fosse proposta per la prima volta in sede di appello dalla parte civile non appellante. La giurisprudenza, commenta la Corte, ha un indirizzo per il quale l'elemento di novità della domanda esclude di per se la violazione del divieto peggiorativo visto che questo ha come presupporto che la domanda di provvisionale sia stata proposta e respinta in primo grado e che, in corso di appello, sia riproposta dalla parte civile. La Corte dice che in questo caso l'esistenza di una deliberazione sul punto, in assenza di una impugnazione del relativo punto da parte della p.civile, impedisca al giudice di secondo grado di potersi ripronunciare. Sempre secondo indirizzo prevalente, deve essere escluso che il divieto di peggioramento possa estendersi dalla misure prettamente penali a quelle civili che non riguardano limite alla sanzione penale ma oggetto ne è una richiesta di natura civilistica. La Corte di Cassazione aderendo a questa tesi boccia così l'altra che vedeva il divieto di peggioramento estendersi anche alle decisioni in punto civile. Comunque, il divieto di peggioramento imposto al giudice di appello per il caso di impugnazione del solo imputato riguarda le deliberazioni di natura penale. Tale limite cognitivo del giudice d'appello riguarda le decisioni penali che non possono estendersi in via intepretativa a vicende di diversa natura. Nel caso de quo il limite non si applica alle valutazioni che hanno condotto a modificare l'importo liquidato a titolo di provvisionale e neppure alla domanda di liquidazione di una provvisionale fatta per la prima volta dalla parte civile non appellante nel giudizio di secondo grado.    

 

 

Droga; l'aggravante dell'ingente quantità non scatta sotto 4mila volte il quantitiativo minimo

 

Con la Sentenza della Corte n° 47978/2016 per le droghe leggere il quantitativo minimo di principio attivo al di sotto del quale non scatta l'aggravante dell'ingente quantità, è pari a 4mila volte e non più 2mila volte il quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno. La Corte parametra la scelta dopo il provvedimento del TAR Lazio che annulla il D.m. ministeriale del 2006. Ivi infatti era la norma con la quale il ministero della Salute aveva innalzato il moltiplicatore della dose media singola da 20 a 40. Su quel dato si erano basate prima del provvedimento anche le Sezioni Unite per determinare nelle droghe leggere la quantità massima giornaliera di principio attivo che poteva essere detenuta indicandola espressamente in 1.000 mg ed ipotizzando una percentuale media di principio attivo del 5% ed un quantitativo lordo di sostanza di circa 50 Kg. Dopo l'annullamento del Tar Lazio il limite fu riportato nella misura originaria di 500 mg. Per i giudici della Corte è giusto rettificare i valori indicati nella Sentenza Biondi. La quantità minima di principio attivo sotto la quale non scatta l'aggravante dell'art 80 Dpr 309/1990 è dunque pari al doppio di quella errneamente indicata con la Sentenza Sez. Unite; "il limite è pari a 4mila volte il quantitativo di principio attivo che del resto coincide con quanto ipotizzato immaginando un quantitativo lordo del 5%. N   

 

GIUDICE DI PACE; NON SI APPLICA LA DISCIPLINA DELL'ART 131-BIS C.P.

 

discordanti pronunciamenti della Cassazione sull'applicabilità della disciplina della tenuità del fatto avanti al Giudice di Pace. Secondo la Sentenza della quinta sez. penale del 02/11/2016 n° 45996, che segue di poco piu di un mese la n° 40699 con la quale si dava il via libera all'applicabilità, si esclude l'estensione in considerazione del fine conciliativo al quale è ispirato il rito del giudice di pace al quale si applica la norma dell'art 34 Dlgs274/2000. I giudici hanno così negato al ricorrente l'applicabilità dell'art 131-bis intorodotto dal dlgs 28/2015. Il beneficio per la Corte è applicabili solo davnti al giudice ordinario per una serie di motivi. L'art 34 non ha riferimenti alla pena detentiva come il 131-bis che lo segna nei limiti dei 5 anni di reclusione. Su ruolo della persona offesa, poi, l'art 34 attribuisce un ruolo inibitorio mentre, per l'art. 131-bis, il dissenso delle parti non è vincolante. I giudici della V sezione escludono anche una abrogazione implicita dell'art. 34 da parte della normativa sulla tenuità. La finalità conciliativa precipua della giurisdizione del giudice onorario verrebbe quindi compressa. La precedente pronuncia 40699 partiva dal presupposto di una indicazione delle Sezioni Unite relativa alla portata generale dell'istituto previsto dall'art. 131-bis Cp. Inoltre, la tesi negativa non è per la IV sezione neppure supportata da nessuna norma, mentre prorpio la differenza trai due istituti dovrebbe spostare l'ago della bilancia verso l'applicazione della norma di maggior favore prevista dall'art 131-bis Cp, dovendo altrimenti reputarsi irrazionale e contrario ai principi generali che la disciplina della tenuità, di maggior favore, non sia utilizzabile per i reati attribuiti a quel giudice.  

 

 

 

FLAGRANZA: Cassazione Sezioni Unite 39131/2016 

 

Le informazioni fornite dalla vittima o da terzi nell'immediatezza del fatto non consentono di qualificare come flagranza l'arresto quello così eseguito. La Corte dirime una il contrasto sul tema chiudendo alle prassi estensive del concetto di flagranza. Con la Sentenza depositata il 21 settembre u.s. Secondo la tesi uscita "sconfitta" dalla lettura dalla pronuncia in esame, il concetto di flagranza o quasi flagranza dell'arresto era applicabile a quello eseguito da colui che non ha direttamente assistito al crimine, quindi promosso sulla base di informazioni raccolte nell'immediatezza da persone vittime o "testimoni" dei fatti. Alla luce delle nuove definizioni di inseguimento (fortemente mutate in virtù delle tecnologie informatiche esistenti) nulla muta sul presupposto utile ad eseguire l'arresto: la certezza o l'altissima probabilità che il soggetto arrestato sia il medesimo che ha commesso il reato. Sicurezza che si ha solo se l'inseguito è colto sul fatto. Viene poi superata la nozione di "quasi flagranza", sin'ora interpretazione riservata al caso di colui che venisse scoperto "con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente", in tal caso si parlerà solo di flagranza. Nel caso oggetto dell'ordinanza di rinvio il GIP non aveva convalidato l'arresto di un uomo fermato sulla base di informazioni della vittima, accoltellata, pur non venendo trovato in possesso dell'arma utilizzata. La decisione della Corte va nel senso di ritenere corretta questa decisione del GIP proprio per il grado di eccezionalità che la provvisoria privazione delle libertà deve rivestire nel più ampio quadro della garanzia costituzionale dell'art. 13 terzo comma. La dilatazione delle norme codicistiche alla nozione di quasi-flagranza fino a prescindere dalla essenziale relazione tra la percezione diretta del fatto ed il successivo arresto deborda, dice la Corte di Cassazione, nell'ambito dell'interpretazione estensiva. Questa porterebbe alla assimilazione dell'inseguimento e delle ipotesi differenti di investigazioni o ricerche eseguite tempestivamente violando il tenore letterale delle norme. La Corte respinge dunque l'orientamento secondo cui avrebbe rilievo che la polizia giudiziaria si attivi immediatamente dopo il delitto e inneschi una sequela ininterrotta di atti invetigativi e di inseguimento che senza soluzione di continuità si concludano con l'arresto del reo.

 

 

Nessuna petulanza della ex moglie per le telefonate riguardanti la gestione della prole

 

Con la sentenza 26776/2016 la Corte di Cassazione interviene in favore dell'imputata di reato riguardante condotte telefoniche moleste. Se infatti lo scopo delle telefonate insistenti, anche di notte, è quello di parlare con i figli ed ottenere il rispetto degli obblighi di mantenimento non si configura reato. I giudici di merito avevano concluso per un utilizzo del telefono avulso dalle necessità di comunicazione normale. Nel contempo la parte lesa era stata condannata per violazione degli obblighi di assistenza familiare. La Signora che era stata sfrattata per morosità ed aveva difficoltà nella gestione dei figli contattava con insistenza il padre, per avere contatti con loro. Anche gli sms rientrano nel raggio d'azione dell'art. 660 Cp, poichè da essi non ci si può sottrarre. L'elemento soggettivo del reato e dunque la consapevolezza di mettere in atto una condotta petulante, scatta anche quando l'agente esercita o crede di esercitare un suo diritto. La Cassazione però esclude che la ricorrente possa essere qualificata